Vetrina buone pratiche

L’obiettivo di identificare le buone pratiche in sanità pubblica è quello di evitare di sprecare risorse, nel “reinventare ogni volta la ruota”, anziché apprendere dalle esperienze altrui in condizioni simili. Tale scambio di conoscenze non solo facilita il migliora­mento delle pratiche e dei programmi ma aiuta anche coloro che avviano nuovi in­terventi ad evitare errori comuni e quindi accelerare lo sviluppo del programma. La maggiore collaborazione e apprendimento tra le organizzazioni sono anche in linea con il movimento globale per promuovere la gestione e il trasferimento della cono­scenza (Knowledge transfer and exchange) come mezzo per migliorare i risultati.

La letteratura sul tema evidenzia molteplici prospettive: quelle di coloro che collocano le buone pratiche all’interno del dominio della evidence-based practice, definendole sulla base delle prove scientifiche di efficacia esistenti; di coloro che interpretano le buone pratiche come interventi che rispondono, in tutte le fasi della progettazione, applicazione e valutazione, a criteri di qualità. Nel primo caso (evidence based practice) l’accento è messo sul concetto di efficacia, ovvero sull’esito positivo di valutazioni dell’intervento sotto condi­zioni controllate; nel secondo caso l’accento è posto sul processo qualitativo e riflessivo compiuto nella realizzazione dell’intervento, basato comunque su azioni con dimostrata efficacia in letteratura, quando disponibili. La scelta delle attività deve essere evidence based, la descrizione del processo permette di analiz­zare nel dettaglio e comprendere le diverse fasi (analisi del contesto, analisi dei bisogni e scelta delle priorità, costruzione e mantenimento delle alleanze, metodi, strumenti e descrizione del processo) per favorire la trasferibilità e generalizzazione su larga scala (scalability).

Vi sono poi coloro che parlano di buone pratiche definendo “buone pratiche” tutte le azioni che in qualche modo hanno mostrato di funzionare, e coloro (soprattutto all’estero) che parlano di “best practice” intendendo le migliori pratiche disponibili al momento, in una accezione relativa rinunciando alla con­notazione di “migliori” in assoluto.

In questo testo consideriamo le due definizioni principali

Definizione del 2001 di Kahan e Goodstadt

-“… quegli insiemi di processi ed atti­vità che, in armonia con i principi/valori/credenze e le prove di efficacia e ben integrati con il contesto ambientale, sono tali da poter raggiungere il miglior risultato possibile in una determinata situazione”.-

Questa definizione, presentata all’interno di un modello interattivo sulle buone pratiche nell’ambito della salute, è oggi riconosciuta anche da altre istituzioni in­ternazionali che si occupano del tema della prevenzione e della promozione della salute. L’Organizzazione Mondiale per la Salute già nel 2013 (Oms-Global action plan for the prevention and control of non communicable diseases 2013-2020) parlando di “strategie e pratiche” che dovrebbero “essere fondate sulle più recenti prove scientifiche e/o buone pratiche” oltre che su aspetti di costo-efficacia, ac­cessibilità, cultura, ecc. In questo modo le buone pratiche, intese come pratiche di buona qualità, accompagnano le evidenze scientifiche, o le sostituiscono laddove queste ultime non siano disponibili.

Lo stesso tipo di approccio è adottato dalle Joint Action europee ChroDis e Chrodis Plus.

Definizione operativa proposta da Ng, E. De Colombani

-Le “best practices” sono pratiche che hanno mostrato evidenza di efficacia nel migliorare la salute della popolazione quando implementate in uno specifico contesto di vita reale e sono suscettibili di essere replicabili in altri contesti.-

Di conseguenza, l’enfasi sull’implementazione nella vita reale richiede anche una valutazione con un focus sui fattori contestuali e di implementazione ri­spetto alle impostazioni sperimentali.

In definitiva la buona pratica è quella che comprende interventi che soddisfa­no una serie di criteri predefiniti a vari livelli e riflettono le priorità della società o dell’organizzazione nel tempo. Le migliori pratiche sono programmi conso­lidati che si sono dimostrati efficaci attraverso valutazioni rigorose e quindi adatti ad essere replicati in altri contesti.

Infatti, elemento cruciale per la definizione di Buona pratica è il concetto di trasferibilità in situazioni e contesti specifici: una buona pratica è quella che mostra il suo funzionamento, o la sua efficacia, in situazioni diverse e può essere esportabile o replicabile.

Naturalmente le raccomandazioni di buona pratica assumono valore nel mo­mento e nel contesto (scientifico e operativo) in cui vedono la luce e valgono “fino a prova contraria” ovvero fino a quando nuovi processi di valutazione dell’efficacia e della trasferibilità forniranno informazioni più aggiornate e utili ad affrontare i bisogni di salute della comunità. Esse sono anche uno degli strumenti di capacity building più importanti a disposizione della sanità pub­blica, all’interno dei processi formativi dei professionisti e nello sviluppo e nella innovazione dell’organizzazione dei servizi che intendano rispondere ai biso­gni e alle risorse della comunità locale e della società.

Un intervento da solo, senza un processo di attivazione della comunità, di implementazione e di monitoraggio dei meccanismi che si attivano, avrà poche possibilità di produrre un impatto rilevabile e rilevante. D’altra parte, la miglior attenzione alla qualità del processo di prevenzione, quand’anche ottimale in tutte le fasi, dalla valutazione dei bisogni fino alla valutazione di impatto, non ha alcuna possibilità di migliorare la salute della popolazione se le azioni (o l’insieme di azioni) che mette in atto non è efficace.